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recensioni

lunedì 19 novembre 2007

di FABIO BIX

“Pensa...” mi dice Stefano. “...a un certo punto, uno, si mette lì con la farina gialla, giù, nell’acqua, e inizia a menarla sul fuoco, e inventa la polenta”. Io, senza smetter di menare la mandibola, lo guardo; ma rallento. Lui continua: “...e anche la carne... la si mangiava cruda, gnam!, poi a qualcuno è venuto di farla cuocere. Di abbinare la carne al fuoco...”/ ancora non smetto di bocconare, io, mentre oscillo tra obliquo interesse e pendula perplessità. Stefano, poi, tira le somme del filosofico s-ragionamento: “... ti deve venire in mente, una cosa così!”. Pare soddisfatto, lui. Io ingoio il boccone e mi pare buono, il brasato. Per compiutezza di informazioni, dirò che non si era esenti da influenze d’uva pigiata e che profumava di rose: moderne contaminazioni dei vini d’oggidì.
S’era alla Corte dei Miracoli, mercoledì, serata dedita al jazz di qualità, a cura dell’ass. Jazz On The Road.
La polenta col brasato – ch’era seguita al salmone lasagnato – è piatto non leggero, certo, ma di gran soddisfazione. Moderna e antica tappa d’arrivo del processo storico-culinario tessuto da uomini illuminati che sposarono il fuoco alla carne, la farina all’acqua e l’uva ai petali di rosa. Mmh... ottime contaminazioni. Grazie, grazie agl’intuitivi e sperimentatori d’ogni tempo.
Tempo? A proposito: era tempo di jazz, poi. Grrr...
Tempo per il pifferaio magicamente indemoniato, ch’è tornato, Maniscalco Emanuele, batterista e leader del quartet, nonché sperimentatore e cuoco di musica non meno “leggera” del brasato con polenta, e di gran soddisfazione per chi ha il palato fino, appunto. Quartetto di carattere internazionale, di età piuttosto bassa e alta levatura, il suo, con Karsten Lipp alla chitarra, Paolo Biasi al basso, e, al sax, Dan Kinzelman, alto fin quasi al soffitto e che soffiava suoni ancor più lunghi, come lamenti di balene in amore, tipo. Ma non sui singoli c’è da metter l’accento. La loro è una musica d’insieme, un lungo assolo a 4, che solo di rado perde voce in favore di “dui” o trittici di musici alterni. Jazz realista, il loro, nel senso che a me pare funga da cartina tornasole della complessità della realtà. Un jazz privo di polvere, dove lo sporco, se c’è, è solo apparente ed è, in verità, lustro e ingranaggio perfettamente oliato. È un caos apparente che sottende a un ordine maniacale. E spesso la gamba vorrebbe seguirne il tempo, ma... quale?!, degli scomposti che s’inseguono e modificano in continuazione... Avvinghiati attorcigliamenti, per dire. Eppur quel magma è frutto e composto d’una elaborazione intrecciata di testa e budelli e una forma ben definita ce l’ha. Fosse pittura, sarebbe pollockiana, astratta eppur concreta e realista, appunto, in in-coerente densità, come le più profonde verità, che mai sono univoche bensì molteplici e sfaccettate/ sfacciate/ sfasciate/ fasciate/ facinorose/ scomode, ma così gratificanti... E quando gira così non c’è molto più da dire, se non che la Margherita è un gran bel fiore, ma meglio è, muti, ascoltare...

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