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recensioni

domenica 23 luglio 2006

La primavera infinita di Konitz

Con i suoi 79 anni il sassofonista è la storia ostinata del jazz

«...un sacco di musicisti neri cominciarono a venirmi a dire che non avevano lavoro, mentre io andavo ad assumere tizi bianchi per la mia band. E io cosa potevo dirgli? Dicevo che se qualcuno di loro suonava bene come Lee Konitz l’avrei preso immediatamente e non me ne sarebbe fottuto se era verde con il fiato rosso. Quando gli dicevo questo, la maggior parte la smetteva di rompermi...».
Parole di Miles Davis, poco prima di registrare «Birth of the cool», album-macignico, di svolta, gran testacoda nella musica di allora (e per sempre), insomma. Si era a metà dei ’60. Lee era lì, di già, sì!
D’eclatante da rimarcare, anche, c’è che Konitz, le sue primavere, a contarle una per una, c’è da perdersi prima d’arrivare in fondo; sono ben 79, tante ma non troppe e, per giunta, c’è da dire che a vederlo sembran molte meno e, soprattutto, che ad ascoltarlo si riduce a una: sbocciata ben più di mezzo secolo fa, un’unica primavera che ancora non ha smesso di fiorire note profumate.
Era Lee in piazza Tebaldo Brusato, Konitz, venerdì sera, per il Festival Jazz On The Road, sorretto da una sessione ritmica, come dire... di grossissimo spessore? Beh, come negarlo, Massimo Manzi ha una stazza che non passa certo inosservata, la batteria si fa piccola piccola, e docile, davanti alla sua grandezza (e ora mi riferisco sia alle sue dimensioni fisiche che musicali). Già, sì, Manzi è batterista dotato di un vestiario di carezze e tocchi e controtocchi e... andiamo per ordine.
Ha aperto il concerto Konitz, da solo, in acustico. Suono crudo. Spoglio. Carne, insomma. Malinconia, un po’, anche. Poi il palco l’ha ceduto all’altra metà della sessione ritmica, Rosario Bonaccorso, in un duetto tra lui e il suo contrabbasso (che s’è sentito poco finché han scelto d’amplificarlo), al quale cantava una serenata di note a rincorrer quelle che pizzicava. Poi è toccato al grande Manzi e ai suoi piccoli tocchi. Da solo, sì. In-tempo-Massimo, poi, è tornato Konitz. E, poi, pure Bonaccorso, e il triangolo a quel punto ha tutti i lati a posto, con angoli perfettamente sincronici in un’atmosfera intima, quasi si fosse seduti attorno a un grande camino (la temperatura ci metteva del suo...).
In alcuni momenti l’impressione è che i tre si cerchino e ci siano direttrici girate di lato, «oh, ah, sei lì, ecco, ecco, eccoci, si va di qui, sì, sì, bello, che bello, di qui...», con Lee che tesse la sua eterna primavera e Manzi che sa essere inversamente proporzionale alla sua massa, delicato come 100 piume che ti carezzan da ogni parte (questione di sensibilità che lui pare averne d’avanzo) mentre Bonaccorso in alcuni passaggi solistici strappa il «wow» gratificante d’un Lee Konitz che indossa pantaloni bianchi corti d’una spanna, a conferirgli un aspetto gian-burrascoso. Il concerto scivola via come un’estate calda eppur fresca, per così dire. Rimane ancora fiato per un bis a tratti swingato.
E come - prima del concerto - ha letto Barbara Pizzetti dal libro Rayuela di J. Cortàzar, il jazz è «l’unica musica universale del secolo, qualcosa che avvicina gli uomini più e meglio dell’esperanto, l’Unesco o le aviolinee, una musica sufficientemente primitiva per giungere all’universalità, e sufficientemente bella per creare una storia tutta sua propria...».
E, mi pare, coi suoi 79 anni e ancora tutto quel fiato e l’energia di saltare qua e là per il mondo, Lee Konitz è del jazz la Storia ostinata che non vuole smettere di scriversi e incantare...

 


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